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NBA BASKETBOLL(A) - IL RITORNO

Ricordo con precisione Utah Jazz - Oklahoma City Thunder e New Orleans Pelicans - Sacramento Kings, partite che di fatto non hanno mai visto la luce grazie a/per colpa di (fare il giudice non mi piace) Rudy Gobert, che per quanto mi riguarda – con la sua involontaria (sempre meglio specificarlo) positività al Covid19 ha salvato la lega da una ancor più tonante ecatombe. Ricordo - con i condotti lacrimali che faticano a resistere - l’ultima tripla di Vince Carter su assist di Trae Young e il suo addio - in punta di piedi - ad una NBA che ha visto crescere, cambiare, contribuendo come pochi altri a far sì che ciò accadesse in meglio. Eroe mitologico contemporaneo che, manco a dirlo, avrebbe meritato un saluto decisamente diverso.

Dei due giorni seguenti mi sovviene la commovente lettera ai tifosi di un Adam Silver, attuale Commissioner della National Basketball Association, quanto mai all’altezza della situazione nonostante lo scomodo palcoscenico. Si sarebbe tornati a giocare solo in caso di totale sicurezza per tutta la mastodontica macchina della pallacanestro americana, dal più forte dei giocatori all’ultimo dei magazzinieri (e non per questo meno importante del primo), ma mai prima di quel momento. Fu indetta una sospensione – decisamente fuorviante per i più ingenui – di appena trenta giorni. Un po' come due fidanzati che, nell’accettare quella breve pausa, sanno benissimo che i loro problemi non scompariranno per magia di lì ad un mese. Poi più niente. Il nulla più totale. Almeno fino ai tragici fatti di Minneapolis. Ma esattamente, questo, con la pallacanestro cosa dovrebbe centrare? Beh, centra più di quanto si possa immaginare. A tal proposito, quache tempo fa, un signore dalla carnagione tendente all’arancione che - ahimè - vive al civico 1600 di Pennsylvania Ave a Washington Dc., espresse il suo malcontento nei confronti dell’impegno politico di LeBron James con una frase che è passata infelicemente alla storia: Shut up and dribble!, letteralmente “Taci e palleggia!”. Ecco perché mi sono commosso nel vederli (ai nomi ci arriviamo tra poco) scendere in strada tra la gente a lottare per quelli che dovrebbero essere diritti inviolabili di ogni essere umano su questo sciagurato pianeta. Antetokounmpo, Westbrook, Lillard, Russell, Korver, Lowry e tutti gli altri. Giocatori di pallacanestro multimilionari che avrebbero potuto comodamente girare la testa dall’altra parte del cuscino e, nel farlo, continuare a dormire sonni tranquilli nelle loro ville con piscina. Ma non l’hanno fatto. Perché il basket non è solo una palla da lanciare in un canestro. Il basket non può e non potrà mai prescindere dalla sua dimensione di fenomeno sociale, dal suo aspetto inclusivo, dai suoi valori di uguaglianza, solidarietà, pace ed integrazione, dal ruolo educativo di cui deve necessariamente farsi promotore. E questo, loro, che sono molto più di semplici atleti, lo sanno bene. Perciò, mio caro biondo (lo stesso di prima dalla carnagione color carota ndr.), di tacere e continuare a giocare, con questi Signori, non se ne parla proprio.

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E poi quella che qualche tempo prima sembrava solo una folle idea, quella di Disney World e del ESPN Wide World of Sports Complex ad , Florida, prese piede. Così pazza, peraltro, che se un anno fa mi avessero detto che i Playoffs NBA 2020 si sarebbero giocati a casa di Topolino e Minnie, avrei chiesto immediatamente due test del palloncino, uno per me e uno per chi si fosse mai sognato di dirmi una cosa simile. Tuttavia, tra un adeguamento e l’altro, la bolla - the bubble oltreoceano - prendeva forma e alcuni degli atleti più famosi e retribuiti del globo – previo un numero indefinito di tamponi (pratica che ovviamente prosegue anche una volta terminata la quarantena preventiva) si sono ritrovati tutti assieme, a dover vivere in una camera d’hotel, a rifarsi il letto da soli (per questioni di sicurezza le pulizie vengono fatte dal personale degli alberghi soltanto una volta a settimana, riducendo così al massimo i contatti), a mangiare cibo precotto in un vassoio lasciato fuori dalla porta delle loro camere, alimentando così il dissenso di molti, abituati di certo ad altro tipo di trattamento.

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Ma citando, e ad avercene di menti di tale levatura, Steven Adams, siamo onesti, non è mica la Siria qui. Tutti si lamentano di qualcosa ma non è niente di serio. Siamo in un resort, punto.”. E così, tra qualche frivola e viziata lamentela, una battuta di pesca, un torneo di ping pong e qualche colpo sul green, la vita nella bolla sembra proseguire senza colpi d’arresto, almeno al momento. Tutto questo in attesa che le cose si facciano serie e si cominci a giocare per davvero.

All’inizio di queste righe non vi ho scritto quanti secondi fossero passati dal funesto giorno in cui tutto si è fermato. Ma questo poco importa ormai, perché ho finalmente smesso di contarli.

Bentornata pallacanestro. Bentornata NBA.

By @Trashtalking

 

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